
La Didaché – introduzione
La tradizione non consiste nel conservare le ceneri ma nel mantenere viva una fiamma.
– Jean Léon Jaurès
Ci può far bene tornare ad abbeverarci, lungo il cammino, agli scritti di quella letteratura cristiana primitiva, permanente sorgente zampillante. I cosiddetti scritti patristici – collocabili in linea di massima tra il I e l’VIII secolo – offrono al lettore – implicito e reale – chiarificazione, forma, ermeneutica e norma a quella lex credendi che ci costituisce in credendo.
In essi troviamo una fiamma viva, appunto, e non ceneri di un tempo ormai passato; scritti di un determinato tempo e spazio capaci di universalismo e di contemporaneità. Offrono a noi, cristiani del terzo millennio, la possibilità di scoprire lo “stesso entusiasmo che fu proprio dei cristiani della prima ora” (NMI 58). Il segreto, per così dire, di saperci fondati su “qualcosa” di stabile, che ci precede e che ci supera: “Le radici, la tradizione, sono la garanzia del futuro. Non è un museo, è la vera tradizione, e le radici sono la tradizione che ti portano la linfa per far crescere l’albero, fiorire, fruttificare” (Francesco).
Ritorniamo dunque alle fonti non con nostalgica illusione ma con consapevole azione. Solo una sempre maggiore riscoperta identitaria, infatti, potrà dare contezza di dignità: sapere chi siamo renderà limpido cosa facciamo. In tal modo verremo detti saggi, volendo “costruire casa sulla roccia” (Mt 7,24b).
A confermare ciò è il notevole interesse registrato negli ultimi decenni, non solo in campo universitario, che ha investito tali scritti considerati, erroneamente, come argomenti “di nicchia” e “per esperti”. La stessa catechesi ordinaria risulterà zoppicante se prescinderà da questi, meritevoli di essere conosciuti e “viralizzati”. Gli stessi sono ormai facilmente rintracciabili sia in formato cartaceo che sul web.
Iniziamo da uno dei testi più antichi a noi pervenuti e che godette di forte autorità nella Chiesa primitiva: la Didaché. In questo articolo ne approfondiremo il carattere storico-tematico al quale ne seguirà un altro di rilettura e di tentativo di ripresa pastorale. L’invito che ci proviene dall’articolo è quello di leggere nell’interezza il testo.
Un testo autorevole
Sebbene non tutti gli studiosi siano d’accordo nella datazione dello scritto – per via di alcune parti preesistenti -, l’opinione più accreditata oggi vede nel 50 d.C. circa la sua composizione. Ciò significherebbe che il testo precede, cronologicamente, molti libri del Nuovo Testamento – basti ricordare, come esempio, che il vangelo di Marco, sul quale si è concordi nel riferirlo come il più antico, viene composto verosimilmente attorno al 42 d.C.
Nel testo sono rintracciabili, però, molti riferimenti impliciti allo scritto matteano. Se riteniamo vera la data di composizione, riferendolo dunque precedente al vangelo di Matteo, l’ipotesi affasciante che è messa in campo è che la Didachè non è altro che il testo della regola interna comunitaria della comunità matteana, nonché canovaccio del suo stesso Vangelo (J. A. Draper).
Di autore ignoto, la Didachè (Διδαχὴ), titolo con il quale è conosciuto il testo, è lemma greco traducibile in insegnamento, dottrina. La stessa parola è riscontrabile, ad esempio, nel libro degli Atti nel momento in cui è presentato il quadrinomio della comunità ideale: “erano perseveranti nell’insegnamento degli apostoli e nella comunione, nello spezzare il pane e nelle preghiere” (At 2,42).
Se il testo godette di autorità e di diffusione nei primi secoli del cristianesimo – tanto da essere citata a più riprese da diversi Padri della Chiesa, alla pari degli altri testi divini -, esso cadde nel dimenticatoio intorno al IV secolo, facendo perdere le tracce e rimanendo ignorato, per più di un millennio, dalla Chiesa. Fu grazie alla scoperta di Filoteo Bryennios, metropolita di Nicodemia, avvenuta nel 1873 nella biblioteca di Costantinopoli, che il testo ritornò alla ribalta. Egli scoprì un antico codice greco contenente alcuni testi antichi tra cui la Didachè e nel 1883 decise di pubblicarla suscitando un notevole interesse scientifico e storico.
Nel codice ritrovato il titolo di questo manoscritto risultava essere Insegnamento del Signore alle genti per mezzo degli apostoli.
Piccola annotazione: degli apostoli, intesi come il gruppo dei Dodici, nel testo non vi è traccia alcuna. E’ bene però tenere a fondamento il fatto che “perché tali scritti potessero ottenere più agevolmente il necessario crisma di autorità, invalse l’uso di farli passare sotto il nome degli apostoli e, successivamente, di personaggi importanti della chiesa primitiva” (M. Simonetti – E. Prinzivalli).
Struttura del testo
La Didaché si presenta come un testo agile e breve. Fondamentalmente possiamo considerarlo una sorta di manuale etico-liturgico per la comunità. Questo elemento ancora di più ne giustifica la diffusione e l’uso nelle varie chiese primitive.
Il testo è gremito di citazioni e allusioni bibliche, sia del Nuovo che dell’Antico Testamento, pur non citandole mai esplicitamente. L’autore, quindi, conosce le Scritture ebraiche ed è a conoscenze delle esortazioni evangeliche – abbiamo detto sopra della concordanza verosimile con la teologia matteana -; e dà per scontato che anche il lettore ne sia a conoscenza.
Formato da sedici succinti capitoli, il corpo testuale può essere così suddiviso: insegnamento morale [I-VI]; norme liturgiche [VII-X]; gerarchia [XI-XV]; escatologia [XVI].
Nella prima parte la morale viene presenta e giustificata attraverso il discorso sulla montagna di Gesù (cfr Mt 5-7) e il richiamo alla Legge data a Mosè (cfr Es 20). Il testo così esordisce: “Due sono le vie, una della vita e una della morte” (I,1) e procederà a presentarle entrambe. Sostrato e intelaiatura a questa parte sono le Beatitudini e i Comandamenti che risuonano fortemente tra le righe.
La seconda parte, che tratta della liturgia, è certamente la più affascinante dal punto di vista storico. Abbiamo tra le mani il testo più antico a noi pervenuto che testimonia una liturgia primitiva e che tratta di: battesimo [VII]; digiuno e preghiera [VIII]; preghiera eucaristica [IX] e di ringraziamento [X]. Possiamo considerarla una forma arcaica di primo rituale e formulario.
La terza parte presenta le “figure” degli apostoli e dei profeti. Qui per apostoli si intende il termine etimologico “inviati” e non l’epiteto utilizzato per indicare i Dodici. In questa sezione abbiamo inoltre la testimonianza della domenica quale “giorno del Signore” (XIV,1) e di una prima forma di gerarchia formata da “vescovi e diaconi” (XV,1).
L’ultimo capitolo chiude il testo con uno sguardo escatologico tipicamente matteano (cfr Mt 24) nel quale l’autore richiama alla veglia e allo stare pronti poiché “non sapete l’ora in cui nostro Signore viene” (XVI,1).
Se grande deve essere la gioia che ci proviene da tale lettura, al pari il senso di responsabilità di fronte ad essa. Avere tra le mani questo piccolo tesoro prezioso deve darci contezza di una custodia-per; una sorta di investimento al quale siamo chiamati, dall’alto del nostro “ruolo” di lettori, affinché non capiti anche a noi di “aver paura e di andare a nascondere il talento sotto terra” (Mt 25,25) come quel servo.
Nell’articolo successivo proveremo a far emergere qualche tema significante e a rileggerlo pastoralmente per una riflessione sinodale e di rinnovamento dell’ecclesiale.