La Didachè – prospettive pastorali (I)

La Didachè – prospettive pastorali (I)

8 Febbraio 2022 Off Di admin

Questa Chiesa bisogna al tempo stesso accettarla e non accettarla così com’è. Se non la si accetta, si costruirà un’altra Chiesa diversa – a meno che non si riesca a costruire nulla – e non la si riformerà. Se la si accetta tale quale, non si cambierà nulla e non la si riformerà di più. Non bisogna cambiare la Chiesa, bisogna cambiare qualche cosa in essa. Non bisogna fare un’altra Chiesa, bisogna fare una Chiesa diversa.

– Yves Congar

Dopo aver mosso i primi passi attorno al testo, giunge il tempo di addentrarvisi. Nel precedente articolo abbiamo fatto una sintesi storico-strutturale della Didachè; abbiamo approfondito il suo carattere oggettivo, il testo così com’è. Ma il nostro obiettivo non è esercitare sul testo alcuna autopsia: il testo, vivo, può essere grimaldello per rileggere il vissuto pastorale dell’ecclesiale, suo paradigma

La domanda di fondo a questa seconda parte di approfondimento vorrebbe essere: cosa il testo dice al noi-comunitario contemporaneo? Come utilizzarlo, favorendo nodi tematici e prospettive pastorali che aprano – e mai chiudano – alla riflessione comunitaria, al ripensamento e alla riforma?

Mia intenzione, dunque, è provare ad avanzare pro-vocazioni che il testo suggerisce tentando, questo l’auspicio, di interessare il lettore all’avvio di nuovi processi (EG 223) rammentando che “ogni rinnovamento della Chiesa consiste essenzialmente in una fedeltà più grande alla sua vocazione […]. La Chiesa peregrinante è chiamata da Cristo a questa continua riforma” (UR 6).

Tracceremo alcuni nodi tematici qui e negli articoli prossimi che, partendo da una delle più antiche fonti a nostra disposizione, offrano spunti d’apertura e non istanze ripiegate su se stesse.

L’antico adagio rimane valido: Ecclesia semper reformanda.

I. Morale come esito e non come presupposto

All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva” (DCE 1).

Con queste parole Benedetto XVI apriva la sua prima Lettera Enciclica dedicata alla carità. Parole programmatiche di un pontificato che ha saputo limpidamente indicare il Chi decisivo della fede.

La Didaché esordisce in chiave morale: “due sono le vie, una della vita e una della morte; la differenza tra le due vie è molta” (I,1) ponendo dunque il lettore di fronte alle conseguenze della scelta di fede. L’autore dà, per così dire, per scontato il dato del credere; il testo si pone in chiara prospettiva catechetica, diretta conseguenza dell’annuncio del kerygma. Sua finalità è quella di offrire un insegnamento, una dottrina, esito di questo annuncio e non suo presupposto. 

Del resto tutti e quattro i vangeli iniziano, non per caso, da una chiamata (cfr Mc 1,16-20; Mt 4,18-22; Lc 5,1-11; Gv 1,35-51); cioè all’inizio della vicenda vi è un incontro.

Paradigmatico è il testo marciano che palesa, nelle prime parole pronunciate da Gesù, il suo programma: “Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo” (Mc 1,15).

Tale conversione – metànoia – implica la necessità primordiale di un cambio di comprensione e di mentalità: occorre cambiare registro interpretativo per iniziare a credere.

Tutto questo il testo della Didachè lo dà per acquisto e noto. Possiamo intravedere in questa prima parte [I-VI] la risposta alla domanda scaturita dal primo annuncio pentecostale: “che cosa dobbiamo fare, fratelli?” (At 2,37b). Sono presentate le dirette conseguenze al credere, dell’aver cioè accettato Cristo. Se l’ipotesi più verosimile, come accennata nel precedente articolo, è che ci troviamo di fronte al testo della comunità di Matteo, allora comprendiamo che esso si presenta come una sorta di “manualetto pratico” che ha come obiettivo quello di formare chi è già stato iniziato.

Secondo l’antica sapienza giudaica, testimoniata ad esempio in Dt 30,15-20, nel Sal 1 e in Sir 15,16-17, il testo procede per separazione indicando due vie antitetiche: vita-morte. Ed inizia presentando la parte positiva del messaggio per poi introdurre quella negativa: alla bellezza della vita piena, alla quale mira il testo, è contrapposta la via della morte fatta di brutture e vizi sui quali occorre vigilare: “Figlio mio, fuggi da ogni male” (III,1). 

L’intuito dell’autore, a mio avviso geniale nel suo procedere “moderno”, sta nell’esordire con il richiamo evangelico delle Beatitudini (cfr Mt 5-7) cioè con il compimento della Legge (cfr Mt 5,17): “La Legge è profezia e pedagogia delle realtà future” (Ireneo di Lione). Essa verrà utilizzata per giustificare la via della morte propendendo per un elenco di negazioni che richiamano quelle dei Comandamenti.

La via della vita è questa: amerai Dio che ti ha creato, ama il prossimo tuo come te stesso; non fare ad altri tutte le cose che non vuoi avvengano per te” (I,2). Con estrema lucidità di sintesi viene posto come preambolo il cuore stesso del Vangelo: “tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro: questa infatti è la Legge e i Profeti” (Mt 7,12). E Paolo offrirà esegesi perfetta: “pienezza della Legge infatti è la carità” (Rm 13,10b).

La proposta iniziale della Legge nuova, apportata da Cristo, mostra tutta la bellezza desiderabile di vita nuova e piena, di quel compimento racchiuso nel comandamento nuovo (cfr Gv 13,34). Il lettore, con questo artifizio letterario, viene posto subito di fronte alla “magna carta” (Agostino) della vita cristiana e al suo essere pedagogia con conseguenze personali e comunitarie: esso è il dato irrevocabile col quale sempre confrontarsi.

Ciò che possiamo trarre da questo primo snodo è, dunque, la posizione che assumiamo di fronte al Mistero. Dobbiamo riconoscere con parresia che spesso, nelle nostre comunità, la conseguenza morale diviene annuncio principiale: dimentichi del kerygma – il solo in grado di toccare il cuore in cui “il soggetto che agisce è il Signore Gesù che si manifesta nella testimonianza di chi lo annuncia” (Direttorio per la catechesi, 58) – riempiamo omelie e catechesi di norme morali che non hanno presa sugli uditori. E la morale, frequentemente, scade in uno sterile moralismo che ci rende moralizzatori dal facile pre-giudizio. 

L’Autore ci invita a partire dalle Beatitudini, cioè a “quell’innato desiderio di felicità” (CCC 1718) che abita il cuore di ogni uomo, e alle sue dirette conseguenze. Ci viene presentata una gradualità corretta nel presentare le ripercussioni del kerygma: partire sempre dalla cifra alta della gioia, frutto del vero incontro personale con Cristo. Il Papa ricorda con delusione che “ci sono cristiani che sembrano avere uno stile di Quaresima senza Pasqua” (EG 6), “che poco a poco trasforma i cristiani in mummie da museo” (EG 83).

Laddove non viene annunciato il kerygma – “è il fuoco dello Spirito che si dona sotto forma di lingue e ci fa credere in Gesù Cristo, che con la sua morte e risurrezione ci rivela e ci comunica l’infinita misericordia del Padre” (EG 164) – è inutile sciorinare pratiche morali; senza incontro vitale non vi può essere alcuna decisione seria di vita. Occorre infatti ricordarsi che “esiste un ordine o «gerarchia» nelle verità della dottrina cattolica, in ragione del loro rapporto differente col fondamento della fede cristiana” (UR 11); base di tale gerarchia è, appunto, il kerygma: “Quando diciamo che questo annuncio è “il primo”, ciò non significa che sta all’inizio e dopo si dimentica o si sostituisce con altri contenuti che lo superano. È il primo in senso qualitativo, perché è l’annuncio principale” (EG 164).

Molti hanno ricevuto e ricevono un’infinità di catechesi che, seppur buone e fondate, non hanno terreno rassodato nel quale poter fruttificare (cfr Mt 13,3b-9) perché non hanno fatto esperienza del kerygma, dunque di Cristo vivo, presente e operante; “ne deriva che alcune questioni che fanno parte dell’insegnamento morale della Chiesa rimangono fuori del contesto che dà loro senso” (EG 34).

Abbiamo riscoperto che anche nella catechesi ha un ruolo fondamentale il primo annuncio o kerygma, che deve occupare il centro dell’attività evangelizzatrice e di ogni intento di rinnovamento ecclesiale” (EG 164). Il kerygma ha già in sé la forza rinnovatrice per cambiare strutture e prassi rigide oltre a possedere insito “un contenuto ineludibilmente sociale: nel cuore stesso del Vangelo vi sono la vita comunitaria e l’impegno con gli altri. Il contenuto del primo annuncio ha un’immediata ripercussione morale il cui centro è la carità” (EG 177).

Siamo così invitati a ripensare la forma ordinaria della catechesi, in ogni suo ambito, come dato esperienziale prima che contenutistico seguendo l’ordine, per così dire, dell’evento riletto evangelicamente; sintetizzando al massimo: incontro-chiamata; discepolato come vocazione; missione pentecostale. 

Mancanti di tale incontro personale, che non va mai dato per scontato, non stupiamoci se non vi è cammino alcuno.