
La Didachè – prospettive pastorali (II)
Continuiamo la nostra rilettura pastorale del testo antico provando a rintracciare, attraverso alcuni nodi tematici, questioni preminenti per l’oggi.
“Voi, dunque, siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste” (Mt 5,48).
- Visione antropologica integrale
Colpisce leggere in un testo antico come il nostro tale sentenza: “non uccidere il bambino con l’aborto, non lo sopprimere appena nato” (II,2). Non sarà, peraltro, l’unico testo patristico ad esprimersi al riguardo: nella Lettera a Diogneto, nella Lettera dello Pseudo Barnaba e in Tertulliano troviamo richiami similari.
Ci sembra questa una parola moderna; contraria, a dire il vero, ad una certa modernità. L’argomento aborto torna qua e là, come una ciclica marea, a travolgere certi salotti televisivi e l’agorà mediatica dei social. Spesso in riferimento all’altra pratica estrema: l’eutanasia.
Le questioni di vita e di morte, di inizio e di fine sono come “zone di frontiera o zone grigie dove non è subito evidente quale sia il vero bene” (Carlo Maria Martini); lo stesso cardinale invitava al dialogo sereno più che allo scontro, spesso ideologico, evitando di creare divisioni inutili.
La categoria più consona con la quale approcciare la dinamica di inizio e fine a me pare essere quella di mistero: non come dato inaccessibile o dal carattere esoterico e, quindi, riservato a pochi ma nella sua accezione teologica di rivelazione esperita. La vita stessa risulta essere mistero nella misura in cui essa diviene esperienza del sé in una rivelazione progressiva riconoscendo che “solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo” (GS 22).
Senza fare una cronistoria della pratica dell’aborto è utile segnalare che nel mondo greco-romano esso era praticato e abbastanza diffuso; la filosofia stessa ne fa oggetto di pensiero e di riflessione. Nel noto Giuramento di Ippocrate (V-IV secolo a.C.), attribuito al padre della medicina scientifica, si legge: “non somministrerò a nessuno, neppure se richiesto, alcun farmaco mortale, e non prenderò mai un’iniziativa del genere; e neppure fornirò mai a una donna un mezzo per procurare l’aborto”. Platone ed Aristotele, filosofi manipolati in certi dibatti come fautori di tale pratica, risultano in realtà essere molto perplessi al riguardo e molti attenti a giustificarla solamente in pochi casi specifici.
La questione, al di là del suo processo evolutivo, a me pare che sia una soltanto e fondamentale: quale visione abbiamo della vita? Quale riflessione e pensiero su di essa? Quale vivente noi affermiamo, ostentiamo ed educhiamo?
Aborto ed eutanasia sono giustificabili ed invocati da chi ha una certa idea di vita. Nel testo della Didachè non è un caso, come già rilevato precedentemente, che l’elenco delle negazioni – via della morte – segua quello riguardante la via della vita.
L’autore mostra un carattere d’ispirazione non tanto nel condannare come grave l’aborto – e nessuno lo mette in dubbio – ma nel ridimensionarlo alla luce di una rivelazione di vita sovra-umana; divina appunto. E’ l’evento-Cristo a ridefinire, pretendendolo, il concetto di vita e del vivere.
A me pare, questa, una riflessione profonda che tenta il superamento di quell’impasse conflittuale che non porta mai risultato. Lo ripeto per chiarezza, nessuno mette in dubbio la questione che “l’aborto come pure l’infanticidio sono abominevoli delitti” (GS 51) ma, ancora una volta, siamo inviati a rapportare una parte al tutto.
Alcune semplici rilevanze: 1) non abbiamo alcun riferimento canonico nei vangeli circa l’aborto e questo ci fa protendere ad ipotizzare verosimilmente che tale divieto contenuto nella Didaché sia letto come conseguenza del kerygma ricevuto; 2) il richiamo presente nel testo è rivolto a cristiani in cammino e non si impone come auctoritas per tutti; 3) la pratica citata doveva essere in (ampio?) uso nella società in cui erano presenti i cristiani a cui si riferisce il testo ed essa non deve intaccare mondanamente la comunità cristiana; 4) implicitamente la questione si sposta circa la visione di vita che la comunità cristiana ha assunto come presupposto; 5) il non praticare l’aborto definisce e distingue la comunità cristiana in un modo di vivere diverso e paradossale.
In estrema sintesi, pastoralmente, possiamo trarre alcune linee di riflessione.
Anzitutto alcune prese di posizione su vita e morte, da entrambe le parti, possono scivolare in mera ideologia, acuendo le differenze e allontanando i poli in un conflitto che risulta insuperabile.
In secondo luogo l’autore della Didachè si rivolge esclusivamente agli appartenenti della comunità senza investirli da banditori da piazza; il divieto di non praticare l’aborto riguarda coloro che sono cristiani e, dunque, giustificato dall’aderire o meno al vangelo.
Infine trovo qui implicito il carattere testimoniale della comunità, il segno a mio avviso più interessante: essa è il soggetto che, avendo fatto esperienza diretta, è vocata a palesare in fatti e parole la bellezza e la portata del vivere, e del vivere bene anzitutto non praticando quanto veniva – e può essere – considerato lecito dalla legge.
Solo una modalità paradossale del vivere autentico, che la comunità cristiana porta in serbo come lievito, potrà essere segno credibile nella società, non però nel segno della protesta ma come proposta. Si tratta, infine, di essere portatori di quella “ecologia dell’uomo” (Joseph Ratzinger) che è integrale (Francesco): “tutto è connesso” (LS 117).
- Sguardo positivo sul reale
Il terzo nodo tematico pone l’attenzione sullo sguardo che siamo in grado di dare al mondo. Come sappiamo guardare ciò che ci circonda?
“Accetta come un bene le cose che ti accadono, sapendo che nulla avviene senza Dio” (III,9).
Ci proviene dall’autore un consiglio pratico di approccio alla realtà: “La formula dell’itinerario al significato ultimo della realtà qual è? Vivere il reale” (Luigi Giussani). Il reale semplicemente è ciò che accade; ciò che è e che mi circonda. Reale è l’abitabile.
Gesù stesso invita ad uno sguardo positivo circa la vita che accade, abbandonandosi ad un Tu provvidenziale: “non preoccupatevi per la vostra vita… Guardate gli uccelli del cielo… Osservate come crescono i gigli del campo” (Mt 6,25a.26a.28b).
Il reale diviene luogo parabolico dal quale è possibile, osservando, accedere ad Altro. Questo sguardo buono che siamo invitati a custodire e ad allenare è lo sguardo del Figlio che rivela l’Abbà. Questo reale è dunque rivelativo: “Tutto rimanda/A una segreta domanda” (Clemente Rebora). Davvero tutto ciò che accade dice qualcosa, rivela questa domanda segreta, intima più del mio intimo: “Come dunque posso stupirmi che Tu in me sia più forte di me?” (Karol Wojtyla).
Celebre è la raccomandazione che la volpe farà al Piccolo Principe: “Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi” (Antoine de Saint-Exupéry). “Stiamo parlando di un atteggiamento del cuore, che vive tutto con serena attenzione, che sa rimanere pienamente presente davanti a qualcuno senza stare a pensare a ciò che viene dopo, che si consegna ad ogni momento come dono divino da vivere in pienezza” (LS 226).
Ci viene consegnato questo reale quale luogo del discernimento riconoscendo anzitutto che “la realtà è superiore all’idea” (EG 233) liberando lo sguardo dal pre-giudizio. Sappiamo farcene carico come comunità cristiana accogliendo la domanda di Gesù: “non siete capaci di interpretare i segni dei tempi” (Mt 16,3b)?