Dante, la crisi e il Figliol Prodigo

31 Marzo 2022 Off Di Maria Grazia Schirone

È il ventidue febbraio del 1300 quando papa Bonifacio VIII proclama con la bolla «Antiquorum habet fide» il primo giubileo della storia della Chiesa Cattolica 1 . In realtà, il giubileo viene datato sì al 1300 ma, per la precisione, il 1300 sarebbe iniziato soltanto il venticinque marzo, giorno di inizio del nuovo anno. Con questo giubileo, il papa invitata i fedeli, confessati e comunicati, a visitare per quindici giorni le tombe di San Pietro e Paolo a Roma concedendo loro l’indulgenza plenaria.
Un evento unico nella sua portata. Il venticinque marzo è anche la data con la quale i critici datano l’inizio di uno dei viaggi più famosi nella storia della letteratura, ma nella storia del mondo in generale. Difatti, il venticinque marzo si celebra il «Dantedì» 2 , il giorno dedicato al Poeta per eccellenza della nostra letteratura.
Il suo è sicuramente l’incipit più famoso al mondo, assieme al «c’era una volta» e al «cantami, o Diva, del pelide Achille» 3 .

«Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura,
ché la diritta via era smarrita.3
Ahi quanto a dir qual era è cosa dura
esta selva selvaggia e aspra e forte
che nel pensier rinova la paura! 4 »

Prima di inoltrarci nei meandri del testo, è bene precisare che tutta la Commedia – che in seguito Giovanni Boccaccio definirà “divina” nel suo «Trattatello in laude di Dante» 5 – è impregnata di allegorie. Che cos’è l’allegoria? L’allegoria è una figura retorica di pensiero, che trasmette concetti astratti e significati morali attraverso immagini concrete ed allusive, in cui ciò che è narrato va interpretato oltre la superficie.
Ora possiamo partire. A circa metà della sua vita – ricordiamoci che il Poeta nasce nel 1265 e il viaggio risale al 1300 6 -, quindi a 44 anni, Dante si ritrova in un bosco buio, tenebroso; questa mancanza di luce era così forte che gli fece perdere la strada giusta.
Questo è il significato letterale. Qual è quello allegorico? Ad un certo punto della sua esistenza (dopo la morte di Beatrice) – che viene paragonata ad un viaggio perché Dante è «in cammino» – , il protagonista perde la giusta via, quella guidata dalla luce divina. Perde Dio. E si ritrova in questa selva: la selva è un’immagine tipicamente medievale, ma è soprattutto il luogo oscuro dove ci si smarrisce. Dove manca Dio, c’è assenza di luce, e quindi di vita, di felicità. Se ci pensiamo bene, quando siamo in un posto che non conosciamo, o quando viene a mancare una fonte di luce, iniziamo ad inciampare, a brancolare nel buio; ci assale la paura, l’ansia, la disperazione, che spesso si traducono in pianto.
Soffermiamoci sul verso «la diritta via era smarrita». Il vocabolario Treccani, alla sezione «diritta» ci dice: «uso sostantivato, ellittico, di mano diritta, per indicare sia la mano destra sia il lato destro» 7. In effetti, fino a qualche anno fa, i mancini erano costretti a scrivere solo con la mano destra, mentre la sinistra, il più delle volte, era legata dietro la sedia. La mano sinistra ha sempre indicato qualcosa di sbagliato, di «sinistro» appunto; utilizziamo spesso questo modo di dire per intendere che c’è qualcosa di brutto, di nascosto. Invece, la destra è la mano giusta, la direzione corretta.

Ecco quindi che Dante, uomo medievale per eccellenza, perde la via della fede, quella appropriata. E si smarrisce. Si perde. Oggi diremmo «entra in crisi». Perdendosi, si ritrova in questa selva selvaggia – e qui troviamo due figure retoriche molto interessanti: una paronomasia e un’allitterazione – che è il luogo demoniaco di perdizione. Il buio ci allontana da Dio, ma ci disorienta, facendoci perdere tutto ciò che c’è di umano in noi. La seconda terzina si conclude con questo pensiero di Dante che ci dice che al solo ricordo di quando si trovava in questo luogo infernale, si sente nuovamente assalito dalla paura.
Quella che può sembrare un’esistenza distante anni luce da noi, in realtà è più attuale che mai. Ed è uguale per l’uomo di ogni tempo e luogo. Quando qualcosa ci fa paura, quando non siamo più disposti a rivivere un dolore, un’esperienza terrificante, il solo pensiero ci fa sudare freddo.

«Tant’è amara che poco è più morte;
ma per trattar del ben ch’i’ vi trovai,
dirò de l’altre cose ch’i’ v’ ho scorte.9
Io non so ben ridir com’i’ v’intrai,
tant’era pien di sonno a quel punto
che la verace via abbandonai» 8 .

Questa selva era così amara, così forte da contrastare, che di peggio c’è solo la morte. Quante volte noi di fronte ai nostri problemi, così grandi e insormontabili, crediamo che peggiore di questi non ci sia nient’altro. Quante volte crediamo di non farcela e ci lasciamo andare. Quante volte gli uomini si sono lasciati sopraffare dalla paura di non riuscire a gestire le situazioni e si sono tolti da vita. Di peggio c’è solo la morte, dice Dante. «Ma». Questo avversativo ci apre a paesaggi infiniti. È il «ma» della vita che prevale sulla morte. In questo luogo così brutto c’era del bene. Com’è possibile che di fronte a tanto orrore ci sia del bello? Per farlo, Dante ha bisogno di raccontarci tutto quello che ha visto.
Il Poeta prova anche a spiegarci come abbia fatto ad arrivare a questa selva, a questa crisi, ma era così stanco e «pieno di sonno» che abbandonò la via di cui abbiamo parlato finora. Questo sonno, chiaramente, è allegorico. È il sonno della ragione, la sua coscienza era stata addormentata dal peccato. La «verace via» è la via del bene. In sostanza, Dante, pienamente uomo, ci dice: il mio peccato, i miei sbagli, mi hanno fatto perdere la direzione del vero bene. E se perdo la direzione del bene, della felicità, che uomo sono? Un uomo che dorme: come si suol dire, «chi dorme non piglia pesci». È la lotta storica tra il bene e il male; è la scelta che deve compiere ogni uomo di ogni tempo.
Qui poi avviene l’incontro tra il Dante personaggio (ricordiamoci che ci sono due “Dante”: quello che scrive, l’autore, e quello che è personaggio, l’agens) e le tre belve: la lonza, la lupa e il leone. Ognuno di loro rappresenta un peccato: in ordine avremo la cupidigia, l’avarizia e la superbia. Ai versi 60 – 63, Dante scrive:

«tal mi fece la bestia sanza pace,
che, venendomi ’ncontro, a poco a poco
mi ripigneva là dove ’l sol tace».

A mio avviso, qui si gioca tutto. Le bestie vanno incontro all’Uomo, e lo respingono dove manca il sole, dove il sole tace. Il peccato ci rigetta nel buio, nella solitudine, negli abissi. Il peccato ci spinge verso la tristezza. In particolare, Dante è terrorizzato dalla lupa, che al verso 50 viene definita «carca ne la sua magrezza», insaziabile pur rimanendo magra. Come società, siamo abituati, oggi più che mai, a volere sempre di più, a non accontentarci mai, a ricercare sempre una felicità diversa da quella che abbiamo. Magari non ci manca niente, ma non ci basta. E allora ricerchiamo piaceri e passioni che ci allontanano dal vero bene, giustificandoci con la scusa «non mi voglio accontentare»; allora diventa una gara all’ultimo Iphone, all’orologio più costoso, ai gioielli più belli. Per Dante, tutto ciò ci rende simili a bestie. E la lupa fa «tremare le vene e i polsi» a Dante. Il peccato deve farci paura. Perché siamo chiamati ad essere molto di più. Siamo chiamati ad elevarci al cielo. Siamo nati per le cose belle, grandi, alte. Il peccato invece ci fa guardare verso il basso e ci fa perdere la nostra dimensione di umanità.
Qui poi avviene l’incontro con colui che diverrà la sua guida per tutto l’Inferno e il Purgatorio, Virgilio, tanto amato da Dante autore da definirlo « lo mio maestro e ’l mio autore», e per la prima volta Dante parla gridando «Miserere di me», abbi pietà di me. È il grido dell’uomo che si rende conto dei propri peccati; è il chiedere perdono, pietà, che ci rende forti. È il chiedere aiuto che ci aiuta ad uscire dalla selva. Nessuno infatti può salvarsi dal male, quindi dalla perdita di sé, senza l’aiuto dell’altro. Virgilio, l’amico, riaccende il lume della ragione e dell’intelletto in Dante.
Subito la guida, dopo avergli raccontato la sua storia, lo esorta:


«Ma tu perché ritorni a tanta noia?
perché non sali il dilettoso monte
ch’è principio e cagion di tutta gioia?».78

L’amico ci aiuta a rialzarci e ci dà la forza per affrontare le difficoltà. L’amico ti sorregge. L’amico ti sprona. E gli chiede «perché non sali questo benedetto monte, che è principio e causa di tutta la gioia?». In una maniera molto elegante, come solo Dante sa fare, mette in bocca a Virgilio parole che, se fossero pronunciate oggi, suonerebbero un po’ come «amico, ma che stai facendo? Ma perché ti sei fermato? Datti una mossa, un altro sforzo e sarai felice!» Quante volte ci abbattiamo perché non riusciamo ad ottenere quello che vogliamo? Quante volte crediamo di stare facendo abbastanza ma in realtà ci siamo arresi molto prima di cominciare? Quante volte dimentichiamo che non c’è gioia senza sforzo perché non si può arrivare in vetta senza il sacrificio e il dolore della salita? Vorremmo una vita facile, dove poter riposare, dove non doverci affannare. Dante ci richiama alla realtà: la felicità è tale solo se sei disposto al sacrificio. Come fa ad esserci resurrezione se prima non c’è morte? Come fa ad esserci l’arcobaleno se prima non c’è tempesta?
Queste parole ci rimandano al Vangelo, in particolare soggiunge alla mente l’episodio del giovane ricco. «Un tale si avvicinò a Gesù e gli disse: «Maestro, che devo fare di buono per avere la vita eterna?» 17 Gesù gli rispose: «Perché m’interroghi intorno a ciò che è buono? Uno solo è il buono. Ma se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti». 18 «Quali?» gli chiese. E Gesù rispose: «Questi: Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso. 19 Onora tuo padre e tua madre, e ama il tuo prossimo come te stesso». 20 E il giovane a lui: «Tutte queste cose le ho osservate; che mi manca ancora?» 21 Gesù gli disse: «Se vuoi essere perfetto, va’, vendi ciò che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro nei cieli; poi, vieni e seguimi». 22 Ma il giovane, udita questa parola, se ne andò rattristato, perché aveva molti beni. 9 » È faticoso seguire le logiche di Gesù. È faticoso perché costa fatica uscire da se stessi, cambiare direzione, fidarsi di qualcuno che non conosciamo così bene. C’è sempre la fregatura da qualche parte. È faticoso salire questo monte perché spesso significa rinnegarsi, rendersi conto che abbiamo fallito, che siamo fragili, deboli, peccatori.
Per poter salire il monte ed essere felici, come voleva esserlo questo giovane, bisogna innanzitutto renderci conto, come Dante, che siamo in crisi. Oggi questa parola la sentiamo da tutte le parti.
Crisi economica, crisi di valori, crisi di lavoro, crisi psicologica, crisi umana, crisi culturale e potremmo andare avanti all’infinito. L’uomo di oggi è in crisi. Il mondo è in crisi. Eppure Dante ci dice che se saliamo il monte saremo felici. E qui viene facile riportare una delle frasi che vanno di moda quando si parla di Dante: «ma questo si drogava». Ma come fa un uomo, lucido, a dire una cosa del genere? Come fa un uomo, con la sua sola testa, ad aver scritto un capolavoro del genere?
E come fa a metterci davanti allo specchio di un uomo che non è cambiato nel corso della storia, che è lo stesso dal 1300, ottenebrato dalle stesse paure e non disposto a sacrificarsi per qualcosa di più grande? Eppure Dante non viveva nel Medioevo, il periodo più buio della storia del mondo, dove erano tutti bigotti e si bruciavano le streghe?
Dicevamo, l’uomo di oggi è in crisi. Questa parola ormai ci fa paura. Ma vediamo, invece, che significa realmente: «Etimologia: ← dal lat. crĭsi(m), dal gr. krísis ‘scelta, decisione’, deriv. di krínein ‘distinguere, decidere’» 10 . La crisi è il momento nel quale possiamo prendere una decisione. Ma
come?! Ci hanno insegnato che la crisi è come il mare in tempesta, tutto va veloce, c’è confusione, c’è dolore, sofferenza. Che cosa dovrei decidere quando muore una persona cara? Cosa dovrei decidere quando vivo una malattia e non so come uscirne? Cosa dovrei decidere se il mondo mi sta cadendo addosso e sono stremato? Cosa può decidere la politica in un momento storico dove tutto sta andando a rotoli? Di fronte a queste domande, anche noi, come il giovane ricco del Vangelo, ce ne andiamo via tristi. Sembra che non possiamo fare altro.
E invece no. Tu hai una scelta. Puoi scegliere di salire il monte. Di affrontare le tue paure, di entrare nel tuo dolore. Di combattere la tua malattia e di avere fede. Puoi scegliere di fare di più.
C’è un altro giovane di cui si parla nel Vangelo, che invece ha avuto il coraggio di affrontare la sua crisi e di essere felice. È il figliol prodigo. Se ne era andato di casa, perché voleva essere libero; ha sperperato tutti i suoi averi, poi è arrivata la carestia e ha iniziato a pascolare i porci e ha sperare di saziarsi con le loro carrube. Guardate dove ci porta il nostro desiderio di volere di più. In basso,
verso i maiali, verso il fango. Quando invece noi siamo chiamati a tutt’altro. «Ma quanti sperano nel Signore riacquistano forza, mettono ali come aquile, corrono senza affannarsi, camminano senza stancarsi» 11 .
Siamo chiamati a volare in alto come aquile. E così, il giovane cosa fa? Si pente e torna a casa e dice « Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te; non sono più degno di esser chiamato tuo figlio» 12 .
Dante aveva fatto la stessa cosa davanti alla Ragione (Virgilio) e aveva detto «Miserere di me».
Chiedere perdono ci libera, ci fa volare. E così il Padre può fare festa: «22 Ma il padre disse ai servi: Presto, portate qui il vestito più bello e rivestitelo, mettetegli l’anello al dito e i calzari ai piedi. 23 Portate il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, 24 perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato. E cominciarono a far festa» 13 . È questa la gioia che Virgilio preannuncia a Dante, la gioia della vita ritrovata, della vita nuova, piena, vissuta. Tu sei chiamato alla vita piena, sin da quando hai ricevuto lo Spirito Santo nel battesimo. Sei chiamato ad essere rivestito di vesti belle quando sbagli, se appunto ti sai spogliare di te stesso. Se sai chiedere scusa, se sai ammettere di aver sbagliato, se sei disposto alla fatica della salita. Solo così potrai arrivare, come Dante, al Paradiso.

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1 https://www.rivstoricavirt.com/rivstoricavirt_sito/Cronogen3.html
2 https://accademiadellacrusca.it/it/contenuti/danted/9227
3 https://cultura.biografieonline.it/iliade-proemio-parafrasi-spiegazione/
4 https://it.wikisource.org/wiki/Divina_Commedia/Inferno/Canto_I
5 https://it.wikisource.org/wiki/Trattatello_in_laude_di_Dante/XXVI
6 https://www.treccani.it/enciclopedia/dante-alighieri
7 https://www.treccani.it/vocabolario/diritta/
8 https://it.wikisource.org/wiki/Divina_Commedia/Inferno/Canto_I
9 http://www.laparola.net/testo.php?riferimento=Matteo19:16-22
10 https://www.garzantilinguistica.it/ricerca/?q=crisi
11 http://www.laparola.net/wiki.php?riferimento=Isaia40:29-31&formato_rif=vp
12 http://www.laparola.net/wiki.php?riferimento=Lc15%2C11-32
13 Ibidem