
La Didachè – prospettive pastorali (iii)
Dalla prima parte del testo [I-VI], contenente, come abbiamo già osservato, vari richiami di stampo morale per i credenti, possiamo far emergere ancora due prospettive interessanti al cammino comunitario.
- Comunità come pedagogia
“Nella chiesa confesserai i tuoi peccati e non andare alla preghiera con cattiva disposizione” (IV,14).
Se l’ipotesi più avvalorata, come precedentemente mostrato, vede nella Didachè il manuale pratico della comunità matteana occorre, allora, prendere come punto di partenza lo stesso testo evangelico.
La struttura del Vangelo di Matteo poggia essenzialmente su cinque grandi discorsi: il cosiddetto discorso della montagna (capp.5-7); il discorso missionario (cap.10); il discorso in parabole (cap.13); il discorso ecclesiale (cap.18); il discorso escatologico (capp.24-25).
Trovo che il discorso comunitario-ecclesiale del cap.18 possa servire da orientamento generale per leggere il passo della Didachè sopra riportato. Per altro occorre evidenziare che il termine chiesa – ἐκκλησία – viene utilizzato tra gli autori evangelici solamente da Matteo rimodulando l’ebraico qahal – assemblea, adunanza (da cui il Qoelet è colui che, letteralmente, prende parola in assemblea e tradotto in alcune versioni del passato appunto come Ecclesiaste).
Tale discorso sulla vita comunitaria offre alcuni importanti snodi che possono aiutare la nostra riflessione. Anzitutto le tematiche qui messe in campo sono introdotte da due domande funzionali alla narrazione: “chi dunque è più grande nel regno dei cieli?” (Mt 18,1b); “Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli?” (Mt 18,21a).
Questi due interrogativi servono all’autore a predisporre due grandi questioni poste a fondamento della comunità-Chiesa: la categoria dei piccoli enfatizzata dal simbolo del bambino; la necessità del perdono quale caratteristica identitaria.
Schematicamente la pericope può così suddividersi:
*chi è il più grande? [vv.1-11]
– ulteriore spiegazione attraverso una parabola [vv.12-14]
+correzione fraterna [vv.15-18]
+concordanza di cuori [vv.19-20]
*quante volte perdonare? [vv.21-22]
– ulteriore spiegazione attraverso una parabola [vv.23-35]
A colpo d’occhio si nota immediatamente che l’impianto generale è stato volutamente costruito in parallelo. I vv.14 e 35, entrambi avviati da un solenne “così…”, hanno carattere di sentenza definitiva; il duplice richiamo al Padre chiude i due quesiti posti. A far da mediazione a tale chiusura sono le due parabole.
Nel mezzo, vv.15-20, sono inseriti due richiami al metodo comunitario come progressiva pedagogia: lo strumento della correzione fraterna e la preghiera fatta in unità.
Il testo ha un palese tratto educativo; esso non esamina, come ci aspetteremmo, la gerarchia o la struttura della comunità. Da Matteo sono offerti, invece, i tratti distintivi e fondamentali del vivere in comune; questo è il suo intento. In fondo, le due risposte di Gesù, approfondite attraverso le due parabole e mostrando un lasso di tempo non immediato – pazienza – nell’affrontare l’immedesimazione nei piccoli e a praticare il perdono, dicono in qualche modo il tempo proprio dell’educazione che richiede passaggi e tappe decisivi.
Il testo della Didachè, dunque, ammettendo come substrato quanto detto finora, intende per chiesa esattamente questo tipo di comunità nella quale i rapporti sono portati ad un livello di fraternità innovativo: è il modo nuovo di intendersi e di viversi avente come presupposto il kerygma.
La confessione dei peccati che il testo menziona è ancora lontana dal sacramento così come lo conosciamo. Possiamo ritenere, almeno fino ai secoli VI e VII, la confessione come strettamente unita al Battesimo e disponibile un’unica volta nell’arco della vita. A me pare che qui, almeno, il testo non usi categorie propriamente liturgico-sacramentali. Potremmo leggere come parallelo un altro passo del Nuovo Testamento: “confessate perciò i vostri peccati gli uni agli altri e pregate gli uni per gli altri per essere guariti” (Gc 5,16a). La difficoltà nostra sta nel leggere questi testi retrospettivamente senza utilizzare schemi ed ermeneutiche nostre.
Questa confessione primitiva, addirittura fraterna, possiamo ipotizzarla tematizzata proprio sulla modalità del vivere e partecipare alla comunità. Questi peccati da confessare sono quelli che minano il vivere in comune (cfr At 5,1-11), che ostacolano e rallentano l’unità (cfr Mt 5,22-24). Non trovo che sia un mero caso il fatto che nel testo di Didachè segua immediatamente il riferimento alla preghiera – direttamente intesa come eucaristia ma anche come momento di preghiera comunitaria extra-liturgica – e alla disposizione, implicita, del cuore.
E’ proprio il cuore (cfr Mc 7,14-23; Mt 15,10-20) ad essere sede da attenzionare poiché centro nevralgico dell’uomo. Ed è al cuore che la vita comunitaria offre educazione permanente. “Fare della Chiesa la casa e la scuola della comunione: ecco la grande sfida che ci sta davanti nel millennio che inizia” (NMI 43). Con questa profezia abbiamo ancora da misurarci seriamente facendo di questa “spiritualità della comunione un principio educativo” (NMI 43).
“Non lasciamoci rubare la comunità!” (EG 92). Occorre almeno domandarsi quale volto abbiano le nostre comunità e come vengano vissute.
- La gradualità della grazia
“Se potrai portare tutto il giogo del Signore, sarai perfetto; se non ti è possibile, fa’ quello che puoi” (VI,2).
Sul finire della prima parte del testo, incentrata sul comportamento e sulla morale, compare quest’espressione che risulta stonata. E’ una sentenza così originale e moderna che sembra stridere un po’ con quanto espresso nel testo finora, tra sentenze e norme di varia natura.
Anche qui ci facciamo aiutare dal testo evangelico. “Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero” (Mt 11,29-30).
Senza fare facile esegesi, possiamo vedere in questo giogo la figura della Legge. Per altro confermata dai successivi versetti (cfr Mt 12,1ss.) incentrati sulla questione del sabato e da un rimprovero finale (cfr Mt 23,4) nei riguardi di scribi e farisei. Un ulteriore dato interessante lo troviamo nella vicenda del concilio di Gerusalemme circa un’annosa questione rituale: “perché tentate Dio imponendo sul collo dei discepoli un giogo che né i nostri padri né noi siamo stati in grado di portare?” (At 15,10).
Questi indizi, per altro molto palesi, ci suggeriscono che il peso dal quale Cristo è venuto a liberare è proprio la casistica della Legge che rischia, addirittura, di disumanizzare e di devozionalizzare. Non è però pratica di abolizione ma di superamento (cfr Mt 5,17).
La Didachè offre, proprio a conclusione della prima parte, il criterio di discernimento fondamentale. Si tratta di una vera e propria “legge della gradualità” (FC 34), che “non è una “gradualità della legge”, ma una gradualità nell’esercizio prudenziale degli atti liberi in soggetti che non sono in condizione di comprendere, di apprezzare o di praticare pienamente le esigenze oggettive della legge” (AL 295).
Riconoscere tale gradualità – educazione – significa onorare la legge dell’incarnazione.
E il testo suggerisce un criterio spirituale moderno al quale fatichiamo sottostare: nella situazione personale in cui ci si trova si è chiamati a dare il meglio.
Perché più della Legge è l’uomo (cfr Mt 12,6-8).