Isabella Morra: un femminicidio fantasma

13 Aprile 2022 Off Di Maria Grazia Schirone

 

«Voce più originale e autentica della lirica cinquecentesca»: è così che viene definita da Benedetto Croce questa meravigliosa poetessa e grande donna, nata a Favale (odierna Valsinni), in Basilicata, nel 1520. Fu proprio Croce a scoprire la sua storia, che mise per iscritto nel suo libro, pubblicato nel 1983, «Isabella di Morra e Diego Sandoval De Castro»[1].

Terza di otto figli, Isabella si ritrova a vivere in un’epoca storica segnata dalle storiche lotte tra la Francia e la Spagna. Ognuna delle due potenze auspicava, infatti, l’egemonia sul mondo intero e, in particolare, sul regno di Napoli, di cui Favale era parte. Suo padre parteggiava per i francesi che persero la loro guerra contro Carlo V: venne quindi esiliato in Francia con il figlio Scipione; verrà nominato poeta di corte, mentre il figlio diventerà il segretario personale della regina Caterina De Medici. Isabella, invece, rimarrà tutta la sua vita nel piccolo feudo della terra lucana, da lei sentito come una prigione. Unica consolazione: la poesia.

«Ecco ch’una altra volta, o valle inferna,
o fiume alpestre, o ruinati sassi,
o ignudi spirti di virtute e cassi,
udrete il pianto e la mia doglia eterna.4

Ogni monte udirammi, ogni caverna.
ovunqu’io arresti, ovunqu’io mova i passi;
ché Fortuna, che mai salda non stassi.
cresce ogn’or il mio mal, ogn’or l’eterna.8

Deh, mentre ch’io mi lagno e giorno e notte,
o fere, o sassi, o orride ruine,
o selve incolte, o solitarie grotte,11

ulule, e voi del mal nostro indovine,
piangete meco a voci alte interrotte
il mio più d’altro miserando fine»[2].

Nei versi della nostra poetessa, che guardava a Petrarca come modello stilistico – siamo infatti negli anni del cosiddetto «petrarchismo»[3] – si legge tutto il dolore e la solitudine provata. La sua voce si rivolge e si appella a questa valle infernale in cui è confinata, in cui i suoi unici destinatari del suo pianto e del suo male sono il fiume Sinni, dalle acque impetuose; i sassi rovinati, gli spiriti privi di virtù; questo male, dice, cresce ogni ora di più, fino a diventare eterno, e ogni notte verrà udito in ogni luogo, ovunque lei si fermi o muova i passi.

Poi si appella agli animali, ai sassi, alle rovine, ai boschi incolti, alle grotte solitarie, ai gufi: mentre lei piangerà, loro dovranno piangere con lei, a voci alte, ininterrottamente, perché il suo dolore è forte più di quello di qualunque altro, così come la sua fine è la più miserabile di tutte.

In un’altra poesia, dedicata alla Fortuna, Isabella dirà che è proprio costei l’artefice di ogni suo male che, come una matrigna malvagia, tesse la tela del suo destino, così crudele che la giovane preferirebbe la morte.

«Qui non provo io di donna il proprio stato
per te, che posta m’hai in sì ria sorte
che dolce vita mi saria la morte»[1]

Grazie a Benedetto Croce conosciamo oggi la sua storia: Isabella sentiva fortemente la mancanza del padre, che le era stato portato via: «Tu, crudel, de l’infanzia in quei pochi anni
del caro genitor mi festi priva»[2]. Ma il dolore subito nell’infanzia non è l’unico che Isabella proverà durante la sua vita, anzi.

La madre di Isabella, probabilmente, soffriva di crisi di nervi, per cui la piccola era troppo spesso lasciata da sola, e la sua unica fuga era il fantasticare e il comporre versi. La sua solitudine si acuiva sempre di più; fu allora, quando Isabella aveva 23 anni, che il suo precettore, Torquato, la mise in contatto con il poeta – nonché cavaliere – spagnolo Diego Sandoval de Castro, barone delle terre della Bollita (odierna Nova Siri), sposato con donna Antonia Caracciolo (forse amica di Isabella) e padre di tre figli. Prima di ricevere il titolo di barone, egli aveva parteggiato con gli spagnoli, per cui Diego era considerato dai Morra un acerrimo nemico. Tra i due iniziò un segretissimo scambio epistolare, ed era proprio il precettore di Isabella che aveva l’incarico di portare ai due la corrispondenza. Le lettere erano sempre di più ma, purtroppo, non sappiamo se tra i due nacque una relazione passionale o se rimane solo platonica.

In ogni caso, nel borgo di Favale i segreti erano fatti per essere svelati: e così la gente iniziò a mormorare. I fratelli di Isabella non riuscivano a tollerare la doppia offesa a loro arrecata: la prima era di motivazione politica, perché il barone De Castro era un filo spagnolo; la seconda riguardava le voci di cui, ormai, era ricoperta Isabella, legata ad un cavaliere della fazione opposta.

Così, essi premeditarono la loro vendetta: nell’autunno del 1545 uccisero Torquato – strangolandolo – colto in fragrante mentre rientrava a Bollita con una lettera del barone tra le mani; poi raggiunsero nella sala delle armi Isabella. Secondo il racconto del nipote Marcantonio, gli aguzzini sorpresero Isabella con le lettere ancora chiuse tra le mani, la quale si difese dicendo che erano state inviate dalla Caracciolo, ma ciò non bastò a placare la loro ira. Isabella morì pugnalata a morte. Per le strade del borgo il menestrello di Favale canta: «Isabella morì con le sue disperazioni/ lasciandoci in memoria le canzoni/ il dolce fiore mai sbocciato sempre in nome del peccato/ e della civiltà dei fratelli che l’affidano ai loro coltelli».

La vendetta non finì qui: nel bosco di Noia (odierna Noepoli) tendono un agguato a Diego che troverà la morte ucciso con tre colpi di archibugio. Il barone si stava dirigendo da Taranto a Bollita per andare a trovare la moglie. Ormai, sapendo del pericolo in cui poteva incorrere, si era equipaggiato di una scorta, ma ciò non bastò per evitargli la morte.

I fratelli scapparono in Francia, dove trovarono rifugio dal padre e dal fratello Scipione.

Il corpo di Isabella Morra non venne mai trovato, e ancora oggi si racconta che, nel castello e tra i vicoli del paese, Valsinni, vaghi il suo fantasma alla ricerca di pace.

 

 

[1] B. Croce, Isabella di Morra e Diego Sandoval De Castro, Palermo, 1983, Sellerio Editore Palermo, pp. 100

[2] G. Ferroni, Poesia italiana. Il Cinquecento, 1978, Garzanti, p. 253

[3] https://www.treccani.it/vocabolario/petrarchismo/

[4] G. Ferroni, Poesia italiana. Il Cinquecento, 1978, Garzanti, p. 251

[5] Ibidem